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IL POPOLO DEGLI ALBERI DI HANYA YANAGIHARA, 2020 FELTRINELLI

Se qualcuno ci chiedesse di individuare l’argomento principale intorno al quale ruota questo bel romanzo di Hanya Yanagihara, ci troveremmo forse in non poca difficoltà.
Potremmo dire che “Il popolo degli alberi” parla del rapporto tra indagine/scoperte scientifiche ed etica, oppure dell’incontro/scontro tra civiltà, oppure della pretesa della scienza di donare l’immortalità, oppure del labile confine tra l’amore, in qualunque forma esso si presenti, e quella che la nostra società definisce “perversione”. Oppure che parla semplicemente di uomini, colti nella loro specifica umanità, che è poi racchiusa nel motto di un famoso poeta latino: “sono un uomo e non reputo a me estraneo nulla di ciò che è umano.”
Passo dopo passo, pagina dopo pagina, siamo condotti alla scoperta di un’umanità perduta e ritrovata; siamo portati quasi all’origine delle più intime, profonde, inconfessabili pulsioni umane.
Il romanzo, ispirato alla vera storia del virologo Daniel Carleton Gajdusek, che nel 1976 vinse un premio Nobel, tiene avvinto il lettore fino alla fine, grazie alla sua strutturato a incastro, condotta da due narratori
Il protagonista del “Popolo degli alberi” è Norton Perina, medico che ha vinto il Nobel per la medicina nel 1974. La vicenda viene narrata “a due voci”: da lui stesso e dal suo allievo Ronal Kubodera, che ricostruisce i fatti curando la prefazione, le note e l’epilogo. Solo a vicenda ormai conclusa, il lettore verrà portato a conoscenza di un frammento - precedentemente strappato- che gli permetterà di ricostruire l’intero puzzle.
I fatti sono noti sin dall’inizio: Norton Perina, che ha identificato la sindrome di Selene grazie agli studi condotti sulla popolazione dell’isola Ivu’ivu, è stato accusato di abusi sessuali ai danni di alcuni dei suoi 43 figli, nativi di U’ivu, da lui adottati di ritorno dai suoi innumerevoli viaggi.
Quello che manca, e che verrà disvelato poco per volta, è il movente che lo ha spinto, un movente che passo dopo passo saremo condotti a comprendere e a non giudicare in base al nostro codice deontologico.
Il sapore che ci rimane a lettura ultimata è quello “sconosciuto” dell’opa’ivu’eke, la tartaruga considerata sacra dagli abitanti di Ivu’ivu, in grado di donare a chi se ne ciba   un’immortalità fisica non accompagnata, però, da un’analoga immortalità psichico/intellettiva.

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